L'odioso articolo che potete leggere in calce, e' la recensione del
libro di Allan Bay "Le ricette degli altri".
E' pieno zeppo di "aneddoti" su modi atroci di uccidere
e cucinare
animali "esotici" o anche "nostrani", ma non certo
della nostra cucina
(come i cani, per esempio).
La cosa disgustosa non e' il fatto che in altri paesi si mangino cani e
gatti, ovviamente, quel che mi disgusta e' la leggerezza con cui l'autore sembra
accettare situazioni di maltrattamento estremo, e
uccisioni
particolarmente cruente solo per il gusto del palato, o per mera curiosita'.
Di ricettari di cadaveri di animali morti ammazzati e'
pieno il mondo, ma il ridicolizzare la sofferenza degli animali e
considerarla una cosa da nulla, un piccolo effetto collaterale dell'arte
culinaria e' quanto di piu' barbaro possa esistere. Altro che arte e
cultura. Solo orrore.
E il giornalista che sta al gioco, senza nemmeno un commento per
prendere le distanze, o far riflettere, far capire che non e' affatto
dovertente, se si e' dalla parte sbagliata della
forchetta.
Complimenti davvero.
Se volete scrivere all'editore e alla redazione del giornale, questi
sono i recapiti:
scrivimi@feltrinelli.itlettere@lastampa.itPer favore, scrivete, una lettera breve, ma originale, un messaggio-tipo
in questo caso, non serve (anche se all'editore potete scrivere
semplicemente "Il libro di Allan Bay e' disgustoso", se
non vi viene
l'ispirazione ;-) ).
Grazie,
Marina
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"Scorribande fra i piatti e i sapori di tutto il mondo"
Nel piatto degli altri anche scimmie, cani e scarafaggi Fonte:
www.lastampa.it13 ottobre 2005
SI può raccontare la cucina del mondo soffermandosi non soltanto sulle
sue meraviglie, ma anche sugli orrori? È quello che prova a fare Allan
Bay nel recente Le ricette degli altri (edizioni Feltrinelli). Ci sono
molti modi di viaggiare. C'è il turista che, all'estero, mangia solo
cose neutrali, certo che il gusto che incrocerà non sarà mai
profondamente diverso da quello a cui è abituato. Fragole e panna a
Wimbledon, pasteis de Belem a Lisbona, crêpes in Francia. La differenza
non è tanto tra cucina mangiabile e non, quanto tra elaborazioni
politically correct e incorrect. In Palomar, Italo Calvino affermava che
degustare il cibo significa non solo apprezzarne il sapore, ma
assaggiare il paese da cui proviene. In questo crede il «food trotter»
che ovviamente non mangia mai in un ristorante italiano all'estero.
Anzi, se può azzarda. Anche a costo di assaggiare quello che, a prima
vista, sembra un vero e proprio «orrore». È anche su questa dicotomia
esotico buono/orrido che poggia il libro di Bay. Laureatosi in Economia
Politica alla Bocconi con una tesi in Storia Economica, giornalista
enogastronomico dal 1994, il cinquantaseienne Bay non ama chi scrive di
cucina senza cucinare, perché «troppo estetizzante». Non è un
sostenitore Slow Food, perché insistere su prodotti di nicchia, per un
economista come lui, non ha senso. Seguace
dell'australiana Donna Hay,
guru della cucina fusion, ritiene che sia meglio uscire poche volte e
scegliere ristoranti da 60-70 euro a pasto, piuttosto che sperperare il
budget andando ogni sera nelle «solite» trattorie. Le ricette degli
altri chiude la trilogia iniziata due anni fa con Cuochi si diventa.
Il sottotitolo è «Scorribande fra i piatti e i sapori di tutto il
mondo», e in queste scorribande Bay, che nel politically incorrect ci
sguazza, si diverte a dedicare capitoletti agli orrori altrui. «È un
concetto ironico - scrive - sono orrori che di fatto (magari non proprio
sempre...) personalmente amo, ma sono poco obiettivo, il mio pancino è
grande e ghiotto come il mondo". Chi si indigna sbaglia in partenza,
perché «ci sono situazioni dove il relativismo culturale è giusto». In
Storie di fantapolitica, Pepe Carvalho litigava con due «turisti»
inorriditi di fronte al baccalà al roquefort, peraltro ottimo. Bay si
spinge molto oltre: nell'economia del libro gli orrori non costituiscono
che il cinque per cento, ma colpiscono. Alcuni paesi non hanno orrori
(Belgio, Svizzera, Francia), altri peccati veniali
(l'abuso di olio di
palma in Brasile, «un autentico killer per le arterie»; l'onnipresenza
in Russia della smetana, la panna acida). In Inghilterra ci sono i
gravies, che stanno alle grandi salse francesi come la sigaretta a un
sigaro cubano. E negli Stati Uniti l'orrore è che, spesso, non sanno
cucinare.
Quando si esce dall'Europa, la situazione si complica. In Nordafrica,
Bay racconta di aver mangiato una pecora stufata, servita su un letto di
riso pilaf e uvetta. Era l'ospite, gli offrirono la «superleccornia»:
l'occhio. «Da persona educata, e poi ero lì per lavoro, l'ho mangiato,
ma non mi sento di consigliarlo». In Cina «tutto quanto si muove è
commestibile». Nei locali si cucinano insetti, topi, cani, serpenti,
pinne di pescecane, zampe d'orso. Il «mito», poi, vuole
che esistano due
usanze particolarmente cruente, mai incontrate da Bay. Una è il cervello
di scimmia. «Pare che si usi scalzare la calotta del cranio delle
scimmie vive per poi mangiarne il palpitante cervello». L'altra è il cucinare gli animali «a pezzi», tenendoli in gabbia e
smembrandoli poco alla volta, cauterizzando le ferite in modo che non
muoiano subito. «Roba da far diventare vegetariano chiunque, roba folle
per ogni ghiottone», ma non per motivi etici: perché «qualsiasi trauma,
anche il trasporto di animali vivi, peggiora la qualità della carne».
Bay racconta anche di avere mangiato un'aragosta viva, «cioè con la coda
aperta, spolpata, la polpa condita e rimessa nella coda, mentre
l'aragosta, alla quale nessun centro vitale era stato
leso, continuava a
muoversi: ahimè, questa l'ho mangiata in un ristorante cinese a Tokyo,
ed era meravigliosa». Non è l'unico passaggio grandguignolesco del
libro. In Giappone, Bay elenca tra gli orrori il sushi di pollo («un
pollo crudo turba») e lo stomaco dell'oloturia servito con una salsa a
base di soia, vino di riso e sakè («da noi usiamo gettare le interiora
di pesce, vedersele offrire provoca un piccolissimo shock»). In Mongolia
è leggenda il «vero filetto alla tartara». Tagliato a striscioline, il
filetto veniva messo fra la sella e il cavallo prima delle sfrenate
corse dei cavalieri mongoli. Alla fine della giornata, il filetto era
perfettamente cotto dal calore emesso dal cavallo. Si ignora se questa
usanza venga ancora riproposta.
«Non ho mai sofferto di sciovinismo culinario (e non solo culinario)»,
sentenzia Bay, «da subito convinto che i piatti si dividano in ben
eseguiti e mal eseguiti, e che tutto il resto, il Nostro Territorio, la
Nostra Tradizione, i Piatti della Nonna siano inutili sproloqui. Conta
solo il talento di un cuoco e la bontà delle materie prime. Fra una
mediocre pasta o risotto e una buona zuppa di montone mongolo non ho mai
avuto dubbi». Qualche dubbio verrà invece a chi si imbatterà nel
capitolo dedicato al Sud-Est asiatico. Bay si fa raccontare gli orrori,
«che come sapete mi affascinano», da un amico che insegna all'Università
di Phnom Penh in Cambogia. Si scopre che nella provincia di Bettambang
(Cambogia) vanno matti per i ratti di risaia, usati come snack per
l'aperitivo, fritti e croccanti. Nel Sud Laos hanno scoperto un
«grazioso topone», incrocio tra un topo e un cincillà, servito in foglie
di banano e salsa di pesce.
In Cambogia orientale adorano le tarantole fritte, confezionate in
eleganti scatole trasparenti «come fossero paste». Nei mercati vendono
scarafaggi, coleotteri, cavallette, bruchi fritti. «È come mangiare
patatine fritte croccanti, ma tutto dipende dall'olio di frittura - se è
pesante, lo scarafaggio resta sullo stomaco a lungo». Ci sono gli
scarafaggi d'acqua, pestati in un mortaio e dal profumo di violetta,
specialità laotiana. E gechi, pipistrelli alla griglia, cotenne di porco
con pesce fermentato.
Ad Hanoi va molto il serpente: «lo scegli vivo, lo ammazzano di fronte a
te, e ti danno da bere il sangue e il cuore in vino di riso, che è uno
sverniciatore, quindi la cosa non è truce come sembra». Infine, il cane.
«Io l'ho mangiato sotto forma di spiedino con salsa di pesce. Non
malvagio, ma con un sapore un po' acre», racconta l'amico di Bay. «Ci
sono molti ristoranti dedicati esclusivamente al cane, e credo che la
prossima volta proverò il menù tipico, sette modi di servire il cane.
Anni fa, l'ente turistico del Nord Vietnam, volendo lanciare una
promozione sulla, peraltro ottima, cucina della regione, aveva ideato un
dépliant con in copertina lo slogan "Che cosa c'è di più delizioso di
una zuppa fumante in cui galleggiano due zampe di cane?", con relativa
foto. Ci sono rimasti male quando gli hanno spiegato che forse per i
mercati esteri non era una buona idea».